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domenica 28 ottobre 2012

Nomi e Lingue

Al tempo dei fatti qui narrati, a Neapolis e dintorni si parlavano almeno tre lingue diverse: Greco, Osco/Sannita e Latino.
Il Greco non era quello di Omero né quello classico ma, come era tipico per il tempo, una sua variante locale molto accentata, con diverse differenze fonetiche rispetto al Greco parlato in altre polis e sul quale pesava fortemente l'influenza dell'Osco. Rimonta anzi proprio a questo periodo storico la nascita della koinè, la variante di greco che, distinguendosi dal greco classico ed appoggiandosi alla terribile spinta espansionista macedone, diverrà poi una sorta di lingua franca nel Mediterraneo che sopravviverà fino al IV sec. d.C. come seconda lingua dell’Impero Romano.
Il Latino non era certamente quello di Cicerone, giacché da pochissimo tempo i Romani avevano cominciato quell'espansione territoriale che li avrebbe poi condotti, grazie al contatto con altre culture spesso a loro superiori, a sviluppare il gusto per la bella forma oratoria e letteraria. In particolare, essendo stati limitati i contatti con la cultura greca, mancavano tra questa e quella lingua tante delle similitudini che solo l'influenza tra l'una e l'altra ha poi sviluppato storicamente.
L'Osco è una lingua riservata agli specialisti. Pur essendo italica, essa non era del tutto affine al Latino: gli studiosi sono attualmente orientati ad attribuire l'Osco ed il Latino a due famiglie linguistiche distinte. Da quel poco che ho potuto vedere, la buona traduzione dall'una all'altra doveva probabilmente richiedere l'intervento di persone più colte della media, se in alcuni dialoghi platonici si attribuisce agli interpreti una competenza superiore a quella dei grammatici (cfr. A. Gross, Hermes – God of Translators and Interpreters – The Antiquity of Interpreting: Distinguishing Fact from Speculation).
Trascuro in questa sede gli Etruschi (che pure dovevano essere ancora presenti qua e là) e pochi resti di Aurunci e Volsci, ciascuno con le proprie lingue e tradizioni.
Il quadro che se ne trae è di un'incredibile ricchezza e varietà culturale su di un territorio assai ristretto per gli standard moderni. Quando si ascoltano certe corbellerie sull'“invasione di stranieri” in determinate regioni europee, mi nasce spontaneo un sorriso di compassione nei riguardi degli estensori di queste perle di idee. Le stime del numero di abitanti distribuiti sul territorio campano ai tempi della vicenda qui narrata mettono a tacere qualunque giustificazione che tiri in ballo la pressione demografica: nell'attuale provincia di Caserta (ai fini del discorso è ovvia l'esclusione della zona metropolitana di Napoli da quella che era nota come Campania Felix) viveva una popolazione non molto inferiore all'attuale, eppure la varietè di culture che la caratterizzava non inficiava assolutamente il tenore di vita della regione. Al contrario, con città come Neapolis, Capua, Puteolis/Dikearchia, Nola, Acerrae, Atella, Pompeii, Herculaneum e Poseidonia/Paistom/Paestum, solo per citare alcune tra le più importanti, il kampanon era probabilmente una delle regioni più ricche al mondo dal punto di vista economico, certamente assai più di quanto non fosse Roma con tutti i suoi dintorni.
Anche la possibile illazione che nel mondo antico le tensioni tra culture diverse fossero mitigate dalla minor propensione agli spostamenti è del tutto fuori luogo. Potremmo accettarla se fosse diretta ad una regione dalla maggiore uniformità culturale ma non alla Campania, che viveva di scambi commerciali, vantando molti tra i più importanti mercati dell'epoca e molte attività di produzione di rinomanza internazionale.
[…]
Ma sto divagando. Tornando all'oggetto di questa nota, le lingue, è giusto da parte mia ammettere di non aver mai studiato Greco a scuola, né Latino decentemente (nota per alcuni docenti: il fatto che una lingua sia morta non significa che non possa essere imparata come una lingua viva; al contrario, l'unico modo efficiente di apprendere una lingua è sempre parlandola, ma questa è una lezione che io ho capito troppo tardi). Nondimeno, durante la stesura del libro è in tali lingue che volevo esprimere termini, nomi propri di persone e luoghi se volevo rendere quel sapore di multiculturalismo (oggi si direbbe multi-etnicità) che avevo sentito documentandomi sui tempi ed i luoghi.
È così che, una volta effettuate le mie ricerche e raccolti tutti i nomi dei quali avevo bisogno, ho deciso che la cosa più ovvia sarebbe stata far parlare ad ogni personaggio la propria lingua. Si troverà pertanto che i nomi dei Romani sono giustamente in Latino e quelli dei Neapolitani in Greco, mentre i toponimi sono ora in una lingua ora nell'altra, a seconda che ad usarli sia un romano o un greco. Ecco dunque che Pozzuoli è chiamata ora Puteolis ed ora Dikearchía; Ischia è ora Pithekusse ed ora Aenaria. In tal modo ho cercato di aggiungere una patina di profondità culturale ai personaggi col fine di caratterizzarli anche sotto tale punto di vista.
Anche l'ortografia è curata in modo da rappresentare per quanto correttamente possibile i suoni di ciascuna lingua, ecco perché i sostantivi greci recano accenti che normalmente non indichiamo in italiano. […] Nondimeno, non sono riuscito a scrivere «Dioghénes» per adattare l'ortografia alla fonetica: la lettera γ (gamma) greca rappresenta esclusivamente il suono della “g” gutturale, e credo sia lecito chiedere un minimo sforzo al lettore che si vuole immergere in questa vicenda ambientata in un tempo in cui γ era “gh” e basta.
[…]
Un trattamento a parte lo merita l'Osco, del quale sono così scarsi i frammenti, come già anticipavo, da rendere quasi impossibile per le mie capacità l'applicazione esatta dei principi enunciati. A risolvere il problema sono intervenuti due essenziali dettagli: uno dei protagonisti della vicenda, Gavio, è Osco/Sannita egli stesso, quindi sarebbe stato naturale per il lettore usare la sua lingua; inoltre, è dal continuo miscelarsi di tante varianti dialettali derivanti dal Latino, tra le quali quella parlata dai discendenti dei Sanniti ha avuto non scarsa importanza, che è nato l'Italiano.
Ho quindi deciso di usare forme e desinenze italiane per l'Osco (nomi propri, principalmente), tranne lì dove la parola sannita fosse nota (meddíss) o andasse a mio giudizio usata per esigenze storico/narrative (Safineis).
Spero di essere riuscito nell'intento, per ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, di quale ricchezza culturale può essere capace un territorio, anche ristretto, nel quale le persone non siano valutate per la lingua che usano o per le loro usanze, ma semplicemente per quello che sono e che sanno fare.

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