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giovedì 7 maggio 2015

La guerra di Annibale (III parte) - I prigionieri

Negli ultimi due post abbiamo prima sfatato il mito di un Annibale dotato di tutti i tratti di un nemico crudele ed esperto nella sola arte della guerra (praticamente, il ritratto degli storici filoromani), poi abbiamo raccolto evidenze di un comportamento assai accorto alla diplomazia nel conflitto tra Cartagine e Roma. In quest'ultimo post rafforzeremo ulteriormente quest'aspetto raccogliendo aneddoti sul comportamento di Annibale coi prigionieri.
Le alleanze di Roma non si sarebbero scardinate solo perché Annibale vinceva grandiose battaglie: dietro le loro mura, anche piccole colonie potevano tener testa al suo esercito. Come convincere alleati così fedeli a deporre le loro armi, a terminare le loro ostilità?
Ciò che Annibale fece appena giunto in Italia fu cercare di apparire come un comandante magnanimo, umano, costretto alla carneficina dalla triste circostanza della guerra, ma che non odiava i suoi avversari al di fuori del campo di battaglia. In questo modo, egli cercava di comunicare ai socii il messaggio: Guardate, voi mi aggredite perché è Roma che ve lo impone, ma non avete motivo per farmi la guerra!
Il modo più esplicito per comunicare questo messaggio fu liberando i prigionieri delle città alleate, senza riscatto.
Proprio così, l'episodio, riportato dopo le più cruente battaglie, ha del meraviglioso: il generale vincitore riunisce gli avversari sconfitti, i Romani da una parte, e gli alleati dall'altra, e si intrattiene con loro in amabile conversazione, offre ai secondi persino doni come segno di stima per il loro valore in battaglia, poi li rispedisce liberi alle loro case, a condizione che non riprendano le armi contro Cartagine.
Annibale fa così al Trasimeno, a Canne, cercando di onorare persino i caduti nemici: fa cercare le spoglie del console Flaminio dopo il Trasimeno e quelle di Lucio Emilio Paolo dopo Canne, rende loro funerali, le restituisce a Roma. Se confrontiamo questo comportamento con il trattamento riservato ad Asdrubale, il fratello di Annibale, dopo la battaglia del Metauro, i Romani ci fanno la figura dei barbari: la testa di Asdrubale, staccata dal corpo, venne lanciata nell'accampamento di Annibale per informarlo della sconfitta del fratello…
Ebbe effetto la politica di Annibale? Ci viene detto che a Canne un cavaliere nolano, tale Lucio Bantio, il più abile dei cavalieri alleati, fu sopraffatto dalla massa di uomini e animali che gli cadde addosso, fu ritrovato in vita, curato da Annibale e rimandato a casa. Marco Claudio Marcello, il pretore, venne a sapere che il giovane era dibattuto tra l'antica fedeltà a Roma, per la quale aveva rischiato la vita, e la riconoscenza al generale cartaginese che ne aveva apprezzato il valore con doni.
L'episodio è tanto più rilevante perché Nola era una città sull'orlo della defezione, secondo Livio dibattuta tra lealisti aristocratici e traditori popolari, ed è solo la capacità di persuasione di Marcello che, riconosciuto anche lui il valore di Lucio in denaro sonante, riporta il giovane all'antica fedeltà.
Non mi esprimerò qui sul valore di questo tipo di lealtà, perché tutto il romanzo Neapolis - I signori dei cavalli ne è tristemente piagato, ma voglio ricordare anche gli altri casi simili a quello narrato.
Sul lago d'Averno, dove si è recato per svolgere dei sacrifici (e per tentare la presa di Cuma e Puteolis), Annibale viene raggiunto da giovani di Tarentum che il Punico aveva liberato e rimandato a casa con doni dopo la battaglia sul Trasimeno. Taranto alla fine strinse alleanza con Cartagine.
Ma la stessa alleanza con Capua, su quali basi viene fondata? Il trattato tra Cartagine e Capua sancisce che i cittadini campani sono soggetti esclusivamente alle proprie leggi, non possono essere costretti a prestare servizio militare contro la loro volontà, e infatti sarà Annibale a dover soccorrere più volte Capua, e mai accadrà il contrario.
Certo, quando lo voleva, Annibale sapeva come imporre la propria volontà anche su Capua, come nel caso di Decio Magio, il senatore campano che, opponendosi all'alleanza tra Capua e Cartagine, viene spedito in prigione a Cartagine, un autentico prigioniero politico ante litteram ma anche questo è un caso talmente isolato che rende ancor più lampante l'impegno di Annibale di non scontentare i suoi nuovi alleati in Italia.
Patti simili probabilmente il Punico li aveva siglati con Sanniti e Irpini, perché quando questi popoli richiedono l'assistenza di Annibale contro Marcello, nonostante l'esplicito rimprovero «se i nostri uomini non stessero servendo con te potrebbero difendere il nostro territorio», si percepisce un certo grado di indipendenza nella loro azione rispetto al Cartaginese. D'altro canto, anche Sanniti e Irpini, nella stessa lettera, riconoscono al Punico la sua «singolare gentilezza e la considerazione che hai mostrato verso i nostri cittadini, che hai catturato e poi hai rimandato a noi, ci hanno convinti a passare a te».
E che dire dei nocerini? Annibale ne prese la città a poi, non volendo essere riconosciuto come un invasore dispotico, promise onori e ricchezze a chi sarebbe rimasto a popolare Nuceria. Nessuno accettò (ci viene narrato), ma è palese l'intento di attrarre a sé con un trattamento di favore i socii di Roma.

Ci sono molti altri esempi che ci vengono riportati, ma ormai è chiaro che Annibale aveva in mente una strategia ben precisa, assai più pericolosa della sua insuperabile abilità militare: isolare Roma.
Un'altra conferma ci viene, in un altro ambito, dalle città greche in Calabria, dove una ad una Kroton, Lokri e Petelia vennero assediate dai Bruttii, che si erano alleati con Annibale subito dopo Canne, dal momento che vi era un'odio atavico tra gli indigeni italici e le città della Magna Grecia. I greci si rivolsero allora ad Annibale per ottenere la pace e la tranquillità: gli italici non avrebbero osato aggredire le polis.
Cosa dunque impedì ad Annibale di riuscire a privare Roma dei suoi alleati? Perché il suo piano non ebbe successo?
Molti hanno evidenziato come Cartagine fosse divisa, come il Barcide non godesse dell'appoggio incondizionato della sua aristocrazia, ma considerato che Annibale si era fatto le ossa senza contare sull'appoggio della madre patria, tendo a sminuire l'impatto dei ritardi di Cartagine sulle mosse del Punico.
Più infauste per Annibale dovettero essere le mille piccole inimicizie tra i diversi popoli italici, le rivalità che solo Roma nel corso di decenni e secoli aveva imparato a gestire. Quelle rivalità l'Urbe era in grado di sfruttarle con profitto quando gli alleati erano riuniti nei suoi eserciti, ma sfociavano in angherie incontrollabili quando gli italici venivano lasciati a sé stessi. Annibale, appena giunto in Italia, dovette spendere molte energie per fare in modo che l'idea di liberatore coincidesse con quella di arbitro affidabile ed equanime, probabilmente un compito al di là di quello che aveva in mente di assumere.
«Tutti i popoli d'Italia avrebbero dovuto trarre le proprie leggi da quelle di Capua», leggiamo in un passo di Livio, che era una soluzione ideale per il Punico: lui era calato in Italia per abbattere Roma, non per ergersi a dominatore della penisola. Col senno di poi, è facile vedere che una cosa comportava necessariamente l'altra, soprattutto seguendo la strategia che Annibale aveva scelto, ma Capua dimostrò di non essere guidata da uomini all'altezza del compito al quale avevano immeritatamente aspirato.
Forse, aveva davvero ragione Maharbale quel 2 agosto del 216 a.C., subito dopo la battaglia di Canne, quando rimproverò al suo generale: «Tu sai come ottenere una vittoria, Annibale, ma non sai che uso farne», ma non perché il Punico non volesse immediatamente marciare su Roma, bensì perché in quel momento egli avrebbe dovuto dichiararsi, de facto, il dominatore della penisola.

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