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lunedì 1 ottobre 2012

Una Terra Poliglotta

La Campania è stata da sempre una terra d'incontro tra culture diverse, e nel IV sec. a.C. le cose non erano assolutamente differenti.
Gli Osci/Sanniti erano forse la popolazione più diffusa, ma accanto ad essi troviamo Greci (principalmente a Neapolis), i Romani che cominciavano ad affacciarsi sul territorio (di fatto, Acerra era stata annessa alle tribù Mescia e Scapzia, guarda caso proprio ad opera di quel Quinto Publilio che assume tenta importanza nella vicenda narrata, ma le stesse Cuma e Puteolis erano state da poco sottratte ai Sanniti, e la ricchissima Capua si era letteralmente donata all'Urbe), gli Etruschi, gli Aurunci, i Volsci…
Ciascuna di queste popolazioni parlava una propria lingua, usava una propria scrittura, alle volte prendeva in prestito l'alfabeto di altre. C'è da stupirsi se i napoletani gesticolano tanto? :)
Nella scrittura del mio romanzo ho voluto affrontare anche quest'aspetto: come si viveva in una terra dove etnie contraddistinte da lingue diverse vivevano fianco a fianco?
Devo ammettere che la soluzione a quest'interrogativo mi è stata molto facilitata dall'aver vissuto in almeno tre luoghi dove tutt'oggi si vive una situazione assai simile a quella descritta.
Attualmente risiedo nei Paesi Bassi, dove esiste una lingua ufficiale (il Fiammingo), ma dove tutti parlano un Inglese più che accettabile. Lo straniero che vi giunga non ha quindi problemi a chiedere informazioni o a cominciare la propria vita nel Paese e, come se ciò non bastasse, la disponibilità di chiunque a cercare di comprendere lo straniero è sempre massima.
Per dieci anni ho vissuto nei pressi di Barcellona, Spagna, capitale della Catalogna, dove accanto alla lingua Spagnola ufficialmente riconosciuta a livello europeo, vive il Catalano, ciò che rimane di una lingua che, nonostante le sue numerose varianti, accomunava un vasto territorio che andava dalla Comunità Valenciana ad Alghero in Sardegna. L'influenza del Catalano è tutt'oggi riscontrabile in numerose parlate, dialetti e lingue ben oltre i confini citati, e sarebbe velleitario negarla, cionondimeno la sua imposizione alle nuove generazione quale unica lingua veicolare dell'insegnamento è quanto meno questionabile: i catalani di domani conosceranno male l'Inglese (sembra essere una jattura di diversi Paesi dell'Europa Mediterranea), male lo Spagnolo (prima lingua occidentale parlata nel mondo, il che ha del paradossale per una regione della Spagna insulare), ma saranno delle cime in un Catalano che, essendo quanto sopravvive di una lingua codificata solo dopo la dittatura franchista, soffre molti dei mali delle cosiddette “lingue morte” (mancanza di spontaneità, eccessiva rigidità espressiva, scarsa capacità di innovazione, pregiudizi fonetici, etc.).
Infine, il terzo luogo è la Campania stessa, regione italiana dove, accanto all'Italiano, sopravvive senza alcuna paura di essere cancellato, pure in mancanza di qualunque sostegno monetario o ufficiale alla sua sopravvivenza, il Napoletano. Esso sopravvive come lingua locale, tramandata dalla vita quotidiana, perché capace di esprimere in maniera diretta, pregna e concisa i concetti che si formano nella mente dei Campani.
Bollata per anni come “volgare” (nel senso basso del termine), essa è pur sempre la lingua che ha espresso una tradizione canora ed operistica di prim'ordine. Tra le prime canzoni che vengono in mente agli stranieri che individuano un italiano figurano 'O sole mio e Torna a Surriento, ed è quasi scioccante per loro sentirsi dire che proprio quelle canzoni non sono in Italiano.
Dotato di queste esperienze, è stato più facile per me immaginare che l'atteggiamento aperto del napoletano nei confronti dello straniero sia sempre stato quello che si può riscontrare tutt'oggi passeggiando per i decumani: cercare di parlare, di comunicare ad ogni costo, e quando non si riesce a comunicare con la voce, aiutarsi coi gesti, con le mani, per la qual cosa noi italiani veniamo a tutt'oggi additati e riconosciuti nel mondo.
Non è una cosa da poco, alcuni continueranno a vederla come una cosa bassa e volgare (“Non si gesticola!” continuano a ripetere i genitori “per bene” a dei figli teatralmente espressivi), ma è invece un ulteriore canale di comunicazione, e quindi un'ulteriore possibilità di conoscere gente diversa.
Che i fatti stiano così e le mie non siano solo romantiche illazioni lo provano studi scientifici sul linguaggio condotti sui bambini umani e sul loro sviluppo del linguaggio a diverse età: è stato osservato che in più tenera età i bambini cercano di comunicare tanto con i gesti quanto con i suoni, ed è solo quando cominciano a comunicare con successo verbalmente che privilegiano quest'ultimo canale rispetto a quello gestuale. È dunque naturale pensare che lì dove il linguaggio gestuale offra ricchezza ed immediatezza espressive, esso abbia tutte le ragioni per perdurare.
Troverete tutto ciò nel mio romanzo? In un prossimo post spiegherò come ho affrontato tecnicamente il problema di far impiegare diverse lingue antiche ai personaggi della vicenda. Nel frattempo, spero di aver solleticato la vostra curiosità sull'argomento.

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