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domenica 4 novembre 2012

Dichiarazioni di Guerra

Scrivere un romanzo che abbia una parvenza di storicità significa documentarsi, credo di aver abbondantemente dimostrato il concetto. In cambio, documentarsi porta a scoprire aspetti del passato che possono essere totalmente ignoti.
Siamo abituati dal cinema a credere che una dichiarazione di guerra tra due popoli al tempo dei romani fosse questione di uno scambio di battute a muso duro, di parole grosse, di toni alterati tra due personaggi importanti. Oppure possiamo credere che, se quella è finzione cinematografica, le cose andassero in realtà proprio come vanno oggi, con giustificazioni (false, purtroppo ci siamo abituati a scoprire) da un lato e dall'altro per motivare una guerra che in genere ha in realtà tutt'altre ragioni.
In questo post raccoglierò le fonti che illustrano quale fosse storicamente una tipica dichiarazione di guerra fatta da Roma, capiremo allora quanto sia davvero cambiata e quanto sia rimasta uguale a sé stessa la specie umana.
Sacerdote feziale di Roma
Cominciamo col dire che a Roma esisteva uno speciale collegio sacerdotale, i feziali, dei quali ho a malapena trovato qualche immagine in rete, e quella accanto risulta la più presentabile (http://www.disons.fr/?p=31868). Il compito dei feziali era per l'appunto quello di appianare le divergenze con gli altri popoli in maniera diplomatica e, alla bisogna, dichiarare guerra. Siccome i Romani sono stati dei grandi codificatori, essi avevano codificato rigidamente anche il modo in cui si muoveva guerra ad un'altra nazione, e già qui comprendiamo che qualcosa non torna: come si fa a codificare per sempre qualcosa che non si sa come può accadere e che può coinvolgere altre culture, totalmente diverse dalla propria? La risposta, facile, è che basta partire dal principio di avere sempre ragione, oppure si può cercare di mettersi sempre dalla parte della ragione.
Ma in una contesa tra nazioni, chi può stabilire la ragione ed il torto? I Romani pensarono bene che gli dei fossero giudici abbastanza potenti ed imparziali (naturalmente, se erano i loro dei), ecco perché le loro trattative diplomatiche erano condotte da un collegio di sacerdoti.
Forse i Romani non furono gli unici a ricorrere a quest'espediente, ma una cosa è certa, mai come per i feziali romani era vero il detto “l'ambasciatore è sacro”!
Leggendo qua e là si trova che una dichiarazione di guerra romana veniva espletata in tre fasi condotte a termine da questi speciali sacerdoti. Le tre fasi sono chiamate rerum repetitio ovvero la denuncia presso il nemico dell'offesa ricevuta dimodoché questo avesse modo di ravvedersi del proprio errore accettando le condizioni imposte da Roma, testatio ovvero la chiamata a testimone degli dei che il nemico rifiuta di cedere alle giuste (e quando mai no?) richieste romane, ed infine l'indictio belli ovvero la vera e propria formale dichiarazione di guerra.
Ma veniamo alle nostre fonti, che descriveranno in dettaglio come queste fasi venissero condotte a termine: la prima che ho trovato al riguardo è Livio che, nel suo Ab Urbe Condita I, 24, fa fare una prima apparizione ai feziali già al tempo della disfida tra Orazi e Curiazi.
[…]
Il feziale interrogò così il re Tullo, «Non mi hai ordinato, o re, di stabilire un'alleanza col pater patratus del popolo Albano?» Ordinato in tal modo dal re, disse: «O re, ti chiedo la sagmina (un'erba sacra).» Il re disse: «L'avrai intatta.» Il feziale portò dalla cittadella una pianta intatta. Poi così chiese al re: «O re, mi rendi tu araldo reale del Popolo Romano dei Quiriti, con le mie insegne ed i miei compagni?» Il re rispose: «Così sia fatto, senza che vi sia danno a me stesso e al Popolo Romano dei Quiriti.» Il feziale era Marco Valerio, egli rese Spurio Fusio pater patratus, toccandogli la testa e la chioma con la verbena (altra erba sacra). Il pater patratus fu assegnato a pronunciare il giuramento, ovvero a solennizzare il patto, e ciò egli fece con molte parole, espresse in una lunga formula in versi che non vale la pena di citare. Dopo la recita delle condizioni, «Ascolta, - disse, - Ascolta, o Giove; ascolta o pater patratus del popolo Albano; ascoltate voi, popolo di Alba: da questi termini, giacché sono stati letti pubblicamente dal primo all'ultimo, senza frode, da queste tavolette e questa cera, e giacché sono state in questo giorno perfettamente comprese, il Popolo Romano non sarà il primo a deviare. Se esso sarà il primo a mancare, per consenso generale, con malizia premeditata, allora in quel giorno possa tu Diespiter colpire il Popolo Romano così come io colpisco questo porco oggi: e colpiscilo tanto più forte quanto più grandi sono la tua potenza e la tua forza.» Quando Spurio ebbe detto queste parole, colpì il porco con una pietra focaia. In modo simile gli Albani recitarono le loro formule ed i loro giuramenti, per bocca del loro dittatore e dei loro sacerdoti.
Marino, ma che combini? Questa è una dichiarazione di alleanza, non di guerra!
Un momento, abbiate pazienza che c'è dell'altro sempre in Ab Urbe Condita, I, 32:
[…]
Ma il carattere di Anco (Marzio) era ben bilanciato, ed egli onorava la memoria di Romolo come quella di Numa. E oltre ad avere la convinzione che la pace era stata più necessaria al regno di suo nonno, quando la nazione era stata sia giovane che focosa, egli credeva che la tranquillità, così libera da attacchi, che era toccata in sorte a Numa non sarebbe stata cosa facile da sostenere per lui; la sua pazienza era messa alla prova, e quando fosse stato tentato, sarebbe stato considerato con disprezzo, e in breve i tempi erano più adatti alla legge di un Tullo che di un Numa.
Tuttavia, affinché come Numa aveva istituito pratiche religiose in tempo di pace, avesse potuto egli stesso dare un cerimoniale di guerra, e che le guerre potessero non solo essere condotte, ma anche dichiarate con una sorta di formalità, copiò dall'antica tribù degli Aequicoli la legge, che ora hanno i feziali, secondo la quale si chiede il risarcimento.
Quando l'inviato giunge alla frontiera del popolo al quale si chiede soddisfazione, egli si copre la testa con un cappellino - il copricapo è di lana - e dice: «Ascolta, Giove; ascoltate, voi confini di - nominando qualunque nazione essi appartengano - che ascolti la giustizia!
«Io sono l'araldo pubblico del Popolo Romano; vengo debitamente e religiosamente incaricato; che le mie parole siano tenute in considerazione!» Allora egli recita le sue richieste, dopo di che chiama Giove a testimone: «Se chiedo indebitamente e contro la religione che questi uomini e queste cose mi siano consegnate, allora che io non possa mai più rivedere la mia terra natale.»
Queste parole le ripete quando attraversa la linea di confine, lo stesso fa a chiunque sia il primo uomo che incontra, lo stesso quando entra dalle porte della città, la stessa cosa quando entra nella piazza del mercato, con solo pochi cambi nella forma e formulazione del giuramento.
Se coloro ai quali presenta le richieste non si arrendono, al termine di trentatré giorni, perché questo è il numero convenzionale, egli dichiara guerra così: «Ascolta, Giove, e tu, Giano Quirino, e ascoltate tutti gli dèi celesti, e voi, divinità della terra, e voi del mondo inferiore; vi chiamo a testimoniare che questo popolo - nominando qualunque sia il popolo - è ingiusto, e non compie la giusta riparazione.
Ma di queste cose ascolteremo il consiglio degli anziani nel nostro paese, su come possiamo ottenere il nostro diritto». Poi il messaggero torna a Roma per la consultazione.
Subito il re avrebbe consultate i Padri, con alcune parole come queste: «A proposito delle cose, i vestiti, le cause, a proposito delle quali il pater patratus del Popolo Romano dei Quiriti ha fatto richieste al pater patratus degli Antichi Latini, ed agli uomini degli Antichi Latini, le quali cose essi non hanno consegnato, né restituito, né soddisfatto, essendo cose che avrebbero dovuto essere consegnate, restituite e soddisfatte, parla - rivolgendosi a un uomo il cui parere era solito chiedere per primo - cosa ne pensi?» Allora l'altro avrebbe risposto: «Io ritengo che quelle cose dovrebbero essere ottenute mediante una guerra giusta e retta, e così affermo e voto.»
Poi si pone la domanda agli altri, nel loro ordine, e quando la maggioranza dei presenti si conforma alla stessa opinione, la guerra è concordata.
Era consuetudine che il feziale portasse ai limiti dell'altra nazione una lancia con la punta di ferro o indurita nel fuoco, e in presenza di non meno di tre uomini adulti dicesse: «Considerando che la tribù degli Antichi Latini e gli uomini degli Antichi Latini si sono resi colpevoli di atti e reati contro il Popolo Romano dei Quiriti, e che il Popolo Romano dei Quiriti ha ordinato che si faccia guerra contro gli Antichi Latini, e che il Senato del Popolo Romano ha approvato, accordato e votato una guerra contro i Latini Antichi; io pertanto, e il Popolo Romano dichiariamo e facciamo guerra alle tribù degli Antichi Latini e agli uomini dei Latini Antichi.»
Detto questo, avrebbe scagliato la sua lancia nel loro territorio. Questo è il modo in cui in quel tempo si chiese risarcimento ai Latini e si dichiarò la guerra, e l'usanza è stata ricevuta dalle generazioni successive.
Ecco, dunque, riassunte le tre fasi di una formale dichiarazione di guerra romana, e spero abbiate apprezzato l'arguzia di ricavare il cerimoniale da quella che in passato era stata una dichiarazione di alleanza.
Quanto questo cerimoniale fosse sopravvissuto dai tempi di Anco Marzio fino all'assedio di Neapolis ce lo racconta Dionigi di Alicarnasso in Antichità Romane, XV, 9, quando descrive in dettaglio la testatio usata dal feziale romano per dichiarare la seconda guerra sannitica:
Al che il feziale romano, prendendo la parola, disse: «Non c'è più nulla che possa evitare, ora che voi Sanniti avete così apertamente violato i vostri giuramenti di mantenere la pace, … e non pensate di biasimare il popolo romano. Perché tutto è stato fatto da loro nel rispetto delle leggi sacre ed onorate dal tempo, tanto ciò che è sacro agli occhi degli dei quanto ciò che è giusto alla vista degli uomini, ed i giudici che decideranno quale popolo non ha tenuto fede al patto saranno gli dei il cui governo è quello delle guerre.» Mentre era sul punto di partire, si tirò il mantello sulla testa, e levando le mani in alto, com'è usanza, pronunciò preghiere agli dei: «Se la Repubblica Romana, avendo sofferto torti per mano dei Sanniti, incapace di appianare le divergenze mediante il dialogo ed un giudizio, dovesse passare ai fatti, possano gli dei e le divinità minori non solo ispirare le sue menti con buoni consigli ma anche garantire che le sue imprese in tutte le sue guerre siano coronate da successo; ma se essa stessa è colpevole di qualunque violazione dei giuramenti di amicizia e sta gettando false basi per le ostilità, possano non prosperare né le sue decisioni, né le sue imprese.»
Insomma, si gettano qui le basi della guerra giusta, e sappiamo a cosa essa porti. Ma lo stesso principio giuridico i Romani lo applicarono anche nella loro dichiarazione di guerra contro Neapolis, nel 326 a.C., Livio avendo lasciato testimonianza di motivi più che validi per una rerum repetitio in piena regola.
Ma di quella dichiarazione di guerra parlerò altrove.

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