L'anno è il 216 a.C., 30'000 uomini al comando del Cartaginese hanno fatto a pezzi un esercito monstre di 80'000 tra romani e alleati in una sola giornata nonostante, è bene ricordarlo, ci siano voluti ben otto mesi al Punico per prendere Sagunto, con tutti i rinforzi e le macchine d'assedio delle quali disponeva in Spagna. Quest'osservazione serva a mettere nella giusta luce la differenza che c'era all'epoca tra una battaglia campale e un assedio.
Invece di restare al sicuro dietro le mura (a lasciar cader pietre sugli assedianti), il comandante di cavalleria di Neapolis, al quale saranno rimasti sì e no trecento uomini, visto che molti erano caduti nelle precedenti battaglie dei Romani contro lo stesso nemico noto per astuzia, tecnica e consistenza numerica, si getta all'inseguimento di un gruppo di Numidi che fanno finta di saccheggiare il contado neapolitano, inoltrandosi “incautamente” (è il commento di Tito Livio che abbiamo riportato nello scorso post) in una serie di strade molto profonde (che lui, da comandante di quella stessa città, ovviamente non conosce…) poste a Nord della polis.
Vistosi perduto, invece di tornare verso la polis, il drappello supera gli acquitrini a oriente della stessa per cercare salvezza sulle imbarcazioni dei pescatori che in quel momento erano nel mare…
Tra il 420 e il 350 a.C., circa un secolo e mezzo prima dei fatti narrati in Neapolis - I signori dei cavalli, l'ateniese Senofonte aveva scritto tra le altre cose ben due trattati sull'impiego militare dei cavalli: Sull'equitazione e Il comandante di cavalleria. La diffusione di questi testi fu rapidissima, tanto che le indicazioni lì prescritte le troviamo impiegate e seguite in tutto il mondo greco e poi ellenistico: persino da Alessandro Magno!
Dunque, che la cavalleria di Neapolis potesse essere guidata da un hipparchos che non avesse letto queste due opere sarebbe ben difficile da credere. Ma cosa avrebbe appreso Hegeas in questi libri? Sarebbero state indicazioni utili per affrontare in battaglia Annibale?
La critica alla prima delle due opere è sorprendente: generalmente si riconosce all'autore una modernità notevole, tanto per le conoscenze della fisiologia e il carattere degli animali come per i principi dell'addestramento (come il tentare di renderlo piacevole per la bestia). Ma anche la completezza dell'opera, divisa in dodici parti, è notevole, tant'è che essa va dalla scelta del puledro, alla doma, al riconoscere il carattere dell'animale fino all'addestramento di un animale da parata o da guerra.
Il trattato è non solo piacevole (io l'ho letto e credo sarebbe interessante per cultori della materia), ma pieno di buon senso nell'equilibrare i vari fattori che intervengono nel trattare un cavallo: estetica, robustezza, dolore che la bestia può provare, sua affidabilità, insomma tutte quelle caratteristiche che permetteranno all'animale di servire il suo padrone con efficacia, al punto che molti dei suggerimenti di Senofonte sono tuttora applicati al momento di scegliere un cavallo da corsa.
Particolare attenzione viene dedicata alla doma, da far eseguire ad addestratori di professione, ma su animali di carattere gentile. È molto interessante osservare che secondo Senofonte il cavallo deve avere fiducia nella gente, crescere amando le persone, e abituarsi alla folla senza temerla.
Per quel che riguarda l'uso del cavallo in battaglia, l'autore prescrive espressamente che esso venga addestrato a saltare fossi, muretti, argini, e dev'essere fatto galoppare su e giù per ripidi pendii. In parole povere, la bestia dovrebbe essere abituata ad affrontare tute le situazioni che potrebbero sorprenderla nel corso di una battaglia concitata.
Molti altri consigli che chiunque di noi ha sentito almeno qualche volta vengono elargiti a piene mani, come il non accostarsi a un cavallo nè di fronte, né di dietro, per evitare di essere colpiti da un calcio o dall'impennata dell'animale.
È interessante l'uso del “dare la gamba” al modo Persiano, con la quale l'animale dovrebbe aiutare il suo istruttore, che potrebbe essere una persona anziana, a montare.
Si raccomanda di non trattare mai un cavallo con rabbia e di insegnargli a non temere ciò che lo impaurisce.
Quando parla di addestramento avanzato, Senofonte descrive esercizi che abituino il cavallo a tutte le situazioni pericolose che possono darsi su di un campo di battaglia. Saltare fossati, prima da solo, poi montato, galoppare per ripidi pendii, sono cose che il cavallo deve imparare a fare, e anche il cavaliere deve eseguire esercizi per essere lui stesso capace di gestire l'animale in queste situazioni.
Viene infine descritto l'equipaggiamento da battaglia di cavallo e cavaliere che si avviano alla battaglia, come l'elmetto beoziano per il cavaliere, la makhaira (la spada greca) e come effettuare il lancio dei giavellotti. Quest'ultima, guarda caso, era proprio l'arma della cavalleria numidica di Annibale.
La seconda opera è assai più interessante perché ci aiuta a capire ancor di più quali potevano essere i doveri di un hipparchos, un comandante di cavalleria.
Senofonte istruisce il destinatario della sua opera come un ufficiale responsabile, a cominciare dal suo ruolo religioso per poi passare a quello civile, che è quello di garantire sicurezza alla città mediante un nutrito corpo di cavalleria, con uomini e animali adatti allo scopo.
Se nel primo testo i principi di ubbidienza venivano consigliati per addomesticare i cavalli, ora gli stessi principi vengono estesi anche ai cavalieri, perché è compito del generale trarre il massimo dalle truppe che gli sono affidate. Si consiglia così come indurre i cittadini ad arruolarsi nella cavalleria convincendoli della nobiltà dell'arma o evidenziando quelle cose che possono essere attraenti per ciascun uomo a seconda della sua natura o estrazione sociale. Si danno insomma istruzioni per far diventare il generale un autentico condottiero di uomini.
Cavalli e cavalieri vanno esercitati continuamente e su ogni tipo di terreno, affinché sappiano affrontarlo in battaglia, ma anche il solo aspetto estetico di una parata viene accuratamente studiato affinché sia motivo di ulteriore orgoglio per coloro che ne fanno parte.
Senofonte descrive minuziosamente come l'ipparco dovrebbe condurre i suoi uomini in ogni situazione: in un territorio amichevole o ostile, avendo cura di uomini e animali, informandosi continuamente dei paraggi (figuratevi dunque sa Hegeas poteva permettersi di non conoscere i valloni intorno alle stesse mura di Neapolis…) e organizzando tanto gli esploratori, l'avanguardia e la retroguardia in modo da essere sempre pronti a qualunque evenienza.
Persino l'uso di spie, di finti traditori, le cui informazioni andavano aggiunte a quelle delle sentinelle, viene spiegato in dettaglio, e qui si sprecano i consigli che non solo Hegeas, ma anche lo stesso Annibale, di fatto un condottiero di scuola Ellenistica, ha seguito, e che possiamo riassumere con la raccomandazione di far credere all'avversario tutto il contrario della propria situazione: far sembrare esiguo un gran battaglione, far sembrare disorientato un gruppo pronto e agguerrito, e viceversa.
Persino il numero necessario per affrontare uno scontro viene indicato, consigliando di scatenare tutte le proprie forze contro un avversario palesemente inferiore e, viceversa, impiegare un ridotto numero di cavalieri esperti contro forze soverchianti, affinché in caso di ritirata il nemico non possa fare prigionieri.
Viene suggerito anche un'altro modo di causare il massimo danno agli avversari, lasciando che piccoli drappelli di coraggiosi si sgancino dalle proprie forze in ritirata per aggredire il nemico che avanza, un'altra tecnica impiegata spessissimo dalla cavalleria numidica di Annibale.
Vediamo dunque che se ci limitiamo al solo scontro tra la cavalleria neapolitana e quella numidica, moltissimi indizi ci narrano di una piccola battaglia condotta seguendo tutti i precetti dettati da Senofonte, da entrambi i lati.
Hegeas sapeva di combattere contro forze soverchianti, e affondò il colpo nonostante il numero ridotto, il che fa pensare a un attacco con uomini preparati. Secondo Livio aveva con sé dei giovani, il che era probabilmente dovuto alle perdite che Neapolis aveva subito nelle precedenti battaglie di Roma contro Annibale, e i suoi uomini cercarono la fuga verso il mare.
Già durante la scrittura di Neapolis - Il richiamo della Sirena abbiamo però osservato che Livio sembra non conoscere i dettagli dei dintorni di Neapolis. In questo caso, ad esempio, dice che le strade tortuose dove avviene l'imboscata di Annibale sono vicine al mare, ma sappiamo che queste sono a nord della città, mentre il mare è a sud. Non sarebbe stato più facile per i neapolitani tentare la fuga in città? Per andare tra l'una e l'altra parte i cavalieri avrebbero dovuto affrontare gli acquitrini a oriente di Neapolis, mossa che certamente aveva senso solo per un drappello di cavalieri esercitati in quegli stessi luoghi.
Ciò corrobora ancora una volta l'ipotesi di un Hegeas ben consapevole della tortuosità del territorio intorno alla città e che, informato di Canne, si aspettava un'imboscata. Anzi, se disponeva anche di una rete di informatori, come suggerito da Senofonte, certamente sapeva che quella di Annibale era una trappola.
Era dunque un pazzo, questo comandante di cavalleria? Perché osò affrontare questa sfida? Neapolis - I signori dei cavalli racconta anche questa storia.
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